domenica 22 gennaio 2017

L'ALLEGORIA DELLA CAVERNA DI PLATONE

Ogni volta che mi capita di fare una riunione per vedere i risultati aziendali mensili, non mi sottraggo alla sensazione che facciamo tanti discorsi sulla base non di conoscenze, bensì di ombre. Come Platone nel mito della caverna indicava nelle ombre i simulacri errati delle cose proiettate sulla parete dal fuoco, che gli uomini incatenati sul fondo scorgevano; così  in azienda noi vediamo l'ombra monetizzata, o meglio finanziaria, delle risorse e dei prodotti, che rimangono per lo più nascosti alla vista dell'alta direzione.
Rimarrebbe da chiarire chi proietta la luce da cui discendono nella caverna le ombre. Se approfondisco rischio di farmi venire un po' di senso di colpa...
Ora, già da tempo ho maturato una convinzione: che il basare il controllo di gestione sui dati contabili e finanziari non è che il riflesso di una fase economica in cui gli elementi finanziari in azienda e nell'economia sono diventati preponderanti rispetto ai processi che utilizzano le risorse.
È un discorso complesso che varrebbe la pena di introdurre anche solo per capire come si riverbera la macroeconomia sulle scelte di governo delle imprese, o, meglio, il contrario, cosa sta alla base dei processi macroeconomici. Mi riprometto di farlo più avanti.
Per il momento mi limito a seguire il filo del ragionamento iniziato in altri post.
Continuando sull'onda del mito platonico, possiamo pensare a un prigioniero (aziendale) che riesca a liberarsi e uscire dalla caverna: passerebbe dalla visione delle ombre contabili proiettate sulla parete oscura, ad una visione chiara delle risorse e dei prodotti utilizzati per creare quelle ombre e, infine, ad osservare la gente che lavora nei processi che consumano quelle risorse. Un docente americano di management degli anni '90 disse che i dirigenti 
"che ritengono di controllare le operazioni con le informazioni relative ai risultati contabili delle operazioni, sono paragonabili ad un automobilista che si serve dello specchietto retrovisore per guidare la macchina, o di un tennista che giochi guardando il tabellone dei punti. Tutti sanno che guardare esclusivamente nello specchietto retrovisore  o il tabellone del punteggio conduce inevitabilmente al disastro in autostrada o sul campo da tennis. Apparentemente, però, sono poche le persone che giungono alle stesse conclusioni in merito all'uso delle informazioni contabili per controllare le informazioni aziendali". (H. Thomas Johnson).
Tuttavia l'uso dei dati contabili per analizzare e decidere è così radicato che vale la pena, prima di passare a scorgerne delle alternative, di vedere come si è creato e la facilità d'uso che ne ha permesso una rapida espansione. La prossima volta.
 

domenica 15 gennaio 2017

SPOSTAMENTO NELLA COMPOSIZIONE DEL CAPITALE AZIENDALE



Continua il nostro discorso sul cambio di paradigma nella composizione delle componenti del capitale d'impresa che si è verificato negli ultimi anni, e la conseguente obsolescenza (tanto per usare un termine "patrimoniale") dei tradizionali sistemi di valutazione economico-finanziario che usano le aziende.
Prima di continuare è utile dare una definizione, il più possibile semplice, di Capitale intellettuale, per come viene comunemente considerato: é l'insieme dei valori intangibili, spesso non valutati e contabilizzati, che costituiscono parte del patrimonio aziendale o che sono suscettibili di aumentarne il valore nel tempo.
se chiamiamo le cose col loro nome, all'interno del Capitale intellettuale di un'impresa identifichiamo:
- il personale e i collaboratori di elevato valore tecnico e strategico
- le relazioni strategiche con i clienti e quota di mercato
- i processi produttivi innovativi
- le procedure interne che apportano efficienza ed efficacia
- le proprietà intellettuali come i brevetti e i marchi
- il valore per l'azienda degli assets intangibili iscritti nelle Attività patrimoniali
Alla luce di questo piccolo elenco appare chiaro, anche solo percettivamente, come lo spostamento avvenuto nella composizione del capitale dell'impresa sia da prendere sul serio, e non possa lasciare inalterati gli strumenti di controllo e pianificazione che si usano in azienda.
Uno studio di Gartner Group sul rapporto tra Capitale Intellettuale e Capitale Finanziario che in 9 settori economici su 11 in cui è stata divisa l'attività economica (restano fuori l'automobilistico e l'edilizia), il rapporto tra Capitale Intellettuale e Capitale Finanziario/Tangibile è superiore a 1, e va da un minimo di 1,2  a un massimo di 2,8 , con un ventaglio intermedio compreso tra questi due estremi.
Già nel 1998 PricewaterehouseCoopers USA segnalava che il 78% del valore capitalizzato delle aziende ricomprese nello S&P 500 era da ricondurre al Capitale intellettuale (Fonte: Business Wire 17/04/2000).
La lacunosità che caratterizza la gran parte dei documenti informativi utilizzati nella maggior parte delle aziende, che tagliano di netto le possibili implicazioni relative alla valutazione del Capitale intellettuale continuando a prendere in considerazione presso che esclusivamente  le rilevazioni quantitative gestionali in un'ottica prettamente finanziaria, costituiscono un quadro di riferimento limitato agli esiti di breve periodo (passato o futuro). Questo perché non viene riconosciuto l'effettivo potenziale, in termini di valore presente e di capacità di sviluppo futuro, insito nel Capitale intellettuale dell'azienda.

mercoledì 11 gennaio 2017

FUORI DAI LIMITI!





Forse può sembrare non molto ortodosso da parte di un professionista della progettazione di sistemi di controllo economico-finanziario e tesoreria, criticarne la portata attuale. Ma non è come sputare nel piatto in cui si mangia, anzi, è una critica ai limiti dei sistemi tradizionali di controllo gestionale, utilizzati normalmente dalla generalità delle aziende, con il fine di superarli per migliorarli e renderli più aderenti alla realtà aziendale attuale.
È infatti riscontrabile un’anomalia di non poco conto in quasi tutti i sistemi di controllo tradizionale: i canoni e i principi cha guidano la costruzione e l’output degli strumenti di misura delle performance sono il frutto di impostazione “datate” rispetto all’evoluzione economica e organizzativa delle aziende di oggi.
La programmazione che si fa col budget, il reporting direzionale, gli indici economici-finanziari per conoscere le prestazioni dell’impresa, già erano diffusi nei primi 50 anni del ‘900; la valutazione degli investimenti risale alla fine della seconda guerra mondiale. Si trattava allora di aziende con scarsa differenziazione dei prodotti, disponibilità di risorse solo materiali, orientate al volume della produzione e all’efficienza, relativamente stabili sul piano competitivo.
Caratteristiche che troviamo spesso anche oggi, ma a cui si aggiungono elementi che cambiano il paradigma del controllo di gestione perché diventati preponderanti, quali: la differenziazione e la qualità dei prodotti e servizi per offrire ai clienti riposte sempre piú adeguate ai loro bisogni e necessità. Non è più il solo tempo della quantità, si sono aggregate una moltitudine di variabili che hanno determinato una complessa configurazione dei costi gestionali, che assieme al ciclo di vita dei prodotti e al periodo che intercorre tra l’ideazione e la commercializzazione (time to market) sempre più breve, rappresentano gli elementi caratteristici delle dinamiche competitive di questi anni.
Senza contare lo spostamento della struttura patrimoniale di molte aziende, che sono passate da attività presso che costituite da soli beni tangibili, ad un aumento considerevole degli assets intangibili. Nello stesso tempo è aumentata l’importanza strategica delle risorse immateriali, che nelle aziende evolute assume un ruolo determinante.
In questo senso è sorprendente che ancora in moltissime aziende non si valuti un adeguamento delle tecniche (e degli strumenti informativi/ci essenziali) di controllo e valutazione della gestione.

sabato 7 gennaio 2017

MA QUAL È IL VALORE DI MERCATO?

Il criterio del valore di mercato di un bene è utilizzato in numerose norme di legge e pricipi contabili. Basti pensare solo alla normativa sui prezzi delle transazioni intragruppo, meglio conosciuta come "transfer pricing", oppure lo IAS 16 che parla di "fair value" riferendosi ad esso come il corrispettivo al quale deve essere scambiata una attività od estinta una passività "in libera transazione tra parti consapevoli e disponibili".
Tuttavia, nella pratica gestionale e contabile corrente, le cose non sono cosí chiare come sembrano. In realtá esistono due concetti diversi di valore di mercato: 
- il valore di realizzo,
- il costo di sostituzione.
Il valore di realizzo sembrerebbe piú avvicinarsi alla definizione di prezzo di mercato, in quanto è quello che si puó ricavare ora dalla vendita di un bene. Il costo di sostituzione sembrerebbe invece qualcosa di completamente diverso, tanto che ci si potrebbe chiedere perchè debba entrare in considerazione nella determinazione del prezzo di mercato.
Le risposte a tale domanda sono prudenza e convenienza.
Da un punto di vista prudenziale possiamo considerare il valore di mercato come il minore tra il valore di realizzo e il costo di sostituzione, ma anche quando non si possa fare accenno alla prudenza è spesso piú facile determinare il costo di sostituzione (basta ottenere un'offerta di vendita da un fornitore) e dimostrare che esso è inferiore al valore di realizzo, che determinare un valore di realizzo esatto o almeno approssimativo. Basti pensare al caso delle scorte di magazzino, il costo di sostituzione viene comunemente accettato come fosse il valore di mercato. Oppure alle polizze di assicurazione sui beni hardware contro i rischi di rottura, il valore assicurato è il costo di sostituzione e non il valore di mercato del bene.
 

venerdì 6 gennaio 2017

OBIETTIVITÀ PER LE SPESE GENERALI

Se ampliamo la visione dall'economia aziendale ai cicli economici, se passiamo dal fissare l'albero ad aprire l'obiettivo sulla foresta, ci rendiamo conto che non esiste una autonomia delle tecniche e politiche di gestione aziendale rispetto alle teorie egemoni che emergono nelle fasi economiche, e che vengono elaborate e divulgate dai think-tank di maggior peso politico-economico (grandi società di revisione, gruppi di riflessione, università).
Certo, nel dire questo, non ho scoperto l'acqua calda. Vi è una vasta pubblicistica in materia: per esempio Arnold Harberger della scuola di Chicago (collega di Milton Friedman) distingue tra economia come "scienza" e come "arte": la prima secondo il paradigma neoclassico riguarderebbe lo studio dell'efficienza, mentre la seconda riguarderebbe l'azione dei tecnici nei processi decisionali concreti.
Mi preme perció sottolineare che l'intreccio tra teorie economiche e pratiche di management aziendale è molto piú stretto di quanto sembri.
Un esempio che ho sempre ritenuto paradigmatico di questa relazione, che si puó riconoscere come un rapporto di causa (le teorie generali macroeconomiche) ed effetto (le tecniche e pratiche di gestione) è dato dal trattamento delle spese generali e dei costi della struttura. Negli anni '70 del 900 negli USA, e poi nel decennio successivo in Europa e in Italia, si è cominciato a parlare di (drastica) riduzione delle spese generali e dei costi della struttura. In un ambiente di mercato che si delineava sempre piú competitivo, e dove si affermavano sempre piú le grandi scuole del pensiero liberista, le spese generali e i costi della struttura tendevano ad essere rappresentati sempre di piú come una zavorra di cui liberarsi. Proliferarono in quei periodi (e non hanno mai smesso) le conferenze e i corsi (a lauto pagamento) delle varie scuole di formazione manageriale incentrate su come ridurre questi costi (con promesse addirittura di tagli a due cifre). Furono gli anni della teorizzazione delle esternalizzazioni delle attivitá no-core, delle strategie di cost-cutting (integrazioni di servizi e trasferimenti all'estero), dei licenziamenti di massa come strategia di HHRR, di ridefinizione delle strategia di acquisto volte al contenimento delle scorte e dei prezzi.
Aleggia, tuttavia, da sempre un problema, che è quello della misurazione delle performance comparate tra i costi per transazione (facile da effettuare) e le efficienze in termini di servizi e soddisfazione del cliente (che, di solito, non rientra nei paradigmi di controllo).  
Infatti, i risultati di azioni di riduzione dei costi indiretti di carattere generale sono identificabili velocemente in termini di conto economico, a brevissimo; ma a medio termine sono estremaemnte difficili da rilevare. I vantaggi competitivi delle spese generali e dei costi della struttura sono in gran parte immateriali, e spesso si avvertono in un periodo di tempo relativamente lungo. I costi di alcune attività rientranti nelle spese generali tendono a variare al variare dei volumi di transazione processati (ordini ricevuti, articoli venduti, ddt registrati, ecc.). Ma, nel determinare una politica di controllo delle spese di questo tipo, non c'è un reale problema di "costi": si tratta di valutare la spesa delle varie attività in relazione ai benefici che se ne possono trarre, tenendo ovviamente sempre presente il reddito disponibile per coprire tali spese ed avere una remunerazione certa del capitale investito.
Tali spese e costi sono di solito relazionati alla percezione del servizio reso ai terzi, ai clienti soprattutto. E pertanto il criterio del loro dimensionamento non puó essere frutto di un semplice calcolo economico quando la loro contrazione puó portare a medio ad un deterioramento degli indici di competitività e allo sforzo di neutralizzare le pratiche dei concorrenti.
Con questo non voglio assolutamente affermare che si debbano mantenere le cattive pratiche gestionali, oppure che vi debba essere la piú completa immutabilità di situazione inefficienti.
Solo che queste possono essere eliminate non con tagli indiscriminati di personale e spese, ma pianificando nel tempo processi informativi e formativi adeguati, in modo che il servizio reso (e percepito) al cliente sia sempre migliore, e si possano processare volumi di lavoro sempre piú ampi attraverso la semplificazione, senza pesare sui ritmi lavorativi in maniera abnorme.

giovedì 5 gennaio 2017

LA COAZIONE A RIPETERE

In generale, le organizzazioni aziendali avanzate si concentrano sul lasso di tempo per eseguire un lavoro o un processo (lead time). 
Mentre, quelle a trazione tradizionale che badano solo ai costi, hanno agito sempre sul ritmo (velocità) con cui un lavoro o un processo viene eseguito.
E non c'è dubbio che, a breve termine, le seconde ottengono sicuramente dei successi. Infatti i lead time sono influenzati da molti vincoli, come la progettazione dei prodotti e dei processi, il layout dello stabilimento, i rapporti con i fornitori e le relazioni con il personale. Spesso si considerano questi vincoli come elementi di fatto piú o meno immutabili dovuti a forze esterne all'azienda di cui non si ha il controllo. Avendo accettato questi vincoli come veri, le aziende hanno concentrato l'attenzione giorno per giorno ad "ottimizzare" i ritmi di lavoro.
Attivare l'attenzione sul processo totale (di lavoro, di produzione, di bilancio, di rendicontazione e controllo, ecc.) vuol dire invece analizzare se esso è compiuto correttamente, senza sprechi e inutili passaggi, con l'ottica di semplificare le fasi e ridurre la complessità del lavoro. A medio termine questo non solo comporta maggiori risparmi, ma autoalimenta una maggiore professionalità degli stessi lavoratori che si vedono coinvolti con sempre maggiori deleghe e competenze nel miglioramento dei processi. 
Questo puó comportare, anzi spesso comporta, un salto di qualità negli investimenti di processo e informativi interni, che peró alla fine risultano avere un ROI superlativo, se gestiti con professionalità e competenza. 
Ma è anche vero che le piccole e medie aziende possono avere una visione piú a medio termine rispetto alle grandi aziende quotate, dove gli azionisti spesso non vedono al di là del semestre successivo per realizzare qualche dividendo a scapito della stabilità e del futuro.

IL METODO ANTISTRONZI




Nel 2007, già dieci anni sono passati, venne pubblicato un libro dal titolo che sembrava tutto un programma, "Il Metodo Antistronzi" (Elliot Edizioni, 2007, Roma, pagg. 223), di. Robert L. Sutton, professore di Scienza dell'Ingegneria gestionale presso la Stanford University - California.
Ricordo che vidi per parecchio tempo la pubblicità sul Sole24Ore, in prima pagina. Mi decisi a comprarlo, mi interessava capire se era veramente un metodo da applicare, oppure la solita tirata americana su quanto fanno male i maleducati e gli arroganti nel lavoro, ma senza proporre soluzioni pratiche per eliminare un problema che provoca seri danni psicologici ai lavoratori ed economici alle aziende.
É stato uno dei libri di pratica aziendale piú interessanti che abbia letto, dovrebbe essere studiato nelle facoltá di Economia del paese. Per dare un'idea del contenuto non posso far altro che riportare la recensione che si trova in controcopertina sul libro stesso.

"Nel 2004 la Harvard Business Review pubblicó le venti idee per l'economia del futuro. Tra queste figurava la proposta di Robert Sutton, professore all'Università di Stanford, di adottare un metodo per liberare le aziende da bastardi, arroganti, tiranni, maleducati e prepotenti - in una parola dagli "stronzi" - di qualsiasi età, sesso o livello. Secondo numerose ricerche, infatti, il loro comportamento aggressivo o umiliante demotiva i lavoratori, sgretola l'affiatamento del gruppo, causa l'aumento del turn over e dell'assenteismo, provocando danni enormi non solo alle vittime ma anche alle strutture in cui operano. Quella proposta ora è diventata un libro che a pochi mesi dalla sua comparsa sul mercato statunitense ed europeo ha già venduto piú di un milione e mezzo di copie ed è in via di pubblicazione in altri quindici paesi. Un testo rigoroso ed acuto, vivace e ricco di umorismo, che non si limita alla sola analisi della situazione ma fornisce suggerimenti pratici sia ai dipendenti che ai manager per identificare ed isolare gli stronzi evitando il contagio, venire a patti con loro (solo quando necessario) e, se proprio inevitabile, cancellarli dalla propria esistenza".

mercoledì 4 gennaio 2017

QUALI OBIETTIVI PER LA CONTABILITÀ DIREZIONALE



Già dagli anni '90 del secolo scorso si sono delineate due scuole di pensiero circa l'uso delle informazioni contabili in azienda: da una parte chi considera che la contabilità deve aiutare solo a mantenere la produzione a un livello tale che consenta di assorbire tutti i costi  e, di conseguenza, si pone il problema di persuadere i clienti a comprare a prezzi sufficentemente alti per garantire un alto tasso di rendimento del capitale; dall'altra chi pensa che le informazioni contabili debbano aiutare soprattutto la capacità di reagire prontamente ai cambiamenti e ad essere flessibili per quanto riguarda la soddisfazione del cliente, le eliminazioni dei ritardi e degli eccessi di produzione.
Alla base di questi due comportamenti stanno diverse concezioni della contabilità direzionale.
Per il primo è importante la centralizzazione delle informazioni e delle decisioni, che poi vengono inviate a cascata ai vari settori e lavoratori per l'esecuzione (top-down).  
Per l'altro diviene fondamentale il parere dei clienti e dei lavoratori a partire dal livello piú basso, delegando a questi ultimi il potere di risolvere i problemi e migiorare costantemente i processi. Questo, innanzitutto presuppone investimento in formazione di base, e un processo di delega a partire dal basso (empowerment) che puó far risparmiare notevolmente sia in ricerca e sviluppo, che per l'abbassamento dell'incidenza degli sprechi produttivi (sovralavorazioni, rilavorazioni, movimentazioni inutili, disallineamenti tra fasi, surplus di giacenze o rotture di stock, ecc.).
Torneremo sull'argomento.

martedì 3 gennaio 2017

LE ASPETTATIVE DELL'AZIENDA

Nel 2016, per i dati che abbiamo a disposizione, le variazioni delll'occupazione si presentano altalenanti, ma sempre all'interno di range minimi, e il tasso generale di disoccupazione su base annua diminuisce solo di uno 0,1% (dati ISTAT ottobre 2016).
Dopo un primo periodo di boom delle assunzioni e stabilizzazioni a tempo indeterminato, dovute agli incentivi della Legge di Stabilità 2015, ora assisitiamo ad un'inversione nella tendenza delle assunzioni del lavoro dipendente. Con la limitazione degli incentivi è chiaro che la bolla occupazionale si va sgonfiando e il tasso di dicoccupazione, che nel II trimestre 2016 era calato dell'1% netto rispetto allo stesso periodo del 2015, nel III trimestre è risalito dello 0,2% rispetto al III trimestre 2015 (link ISTAT qui sotto).
L'elemento fondamentale per l'occupazione (e la produzione) è l'aspettativa. L'aspettativa delle imprese circa l'importo che i consumatori saranno disposti a pagare quando esse saranno pronte a fornirli, e, a maggior ragione, se il periodo di tempo fra l'acquisto di merci da trasformare e il prodotto finito da immettere sul mercato é lungo (come nella produzione di macchinari), l'aspettativa deve essere piú forte.
Se l'aspettativa delle imprese non è buona (a dicembre 2016 la fiducia delle imprese è diminuita a 100,3 da 101,4) e il risparmio aumenta (l'indice di propensione al risparmio continua a salire, e dal 2012 è cresciuto di 2 punti sul PIL, passando dal 17% al 19%), l'occupazione ne risente in maniera pesante.
L'aspettativa delle aziende (dell'imprenditore) è determinata dalla propensione al consumo delle famiglie, che a sua volta aumenta se la disponibilità di denaro da spendere e la stabilità del reddito sopravanza il sentiment di dubbio e insicurezza per il futuro che provoca l'aumento della quota marginale di reddito indirizzata al risparmio.
L'intreccio di alta disoccupazione, alti livelli di precarietá del lavoro, alto risparmio (e bassa natalitá) puó provocare una stagnazione di lunga durata, che puó essere combattuta solo aumentando notevolmente il tasso di investimento produttivo e riportando l'investimento finanziario e la relativa rendita a livelli meno remunerativi di questo.


VALUTARE CORRETTAMENTE LE SCORTE

Spesso la valutazione del magazzino fa venire il mal di pancia nei reparti di contabilità e di controllo di gestione, soprattutto quando sono da valutare i semilavorati e i prodotti finiti, cioé quelle entitá economiche in cui è incorporato il valore del lavoro, l'energia o altri fattori diretti utilizzati per costruirle o produrle.
Il criterio fondamentale da usare è quello per il quale il miglior metodo di valutazione è quello che piú chiaramente rappresenta i fatti.
Sono categoricamente escluse dalla valutazione dei semilavorati e prodotti finiti le spese indirette di produzione e amministrative.

LE PROCEDURE AZIENDALI

L'organizzazione di un'impresa si misura anche dal grado di controllo interno nelle varie attivitá che vengono quotidianamente svolte dalle diverse funzioni aziendali.
Le procedure scritte costituscono un punto di riferimento per gli addetti e per i neo-assunti; per chi deve eseguire un lavoro giornaliero; per i revisori interni che devono confermare o meno lo svolgersi delle funzioni secondo standard prestabiliti dal management; per certificare ai soci o ai terzi l'efficienza organizzativa dell'azienda e il livello del controllo interno tendente alla minimizzazione degli errori e delle potenziali frodi.

BATTEZZARE I CESPITI

Ci sono aziende che hanno migliaia di immobilizzi tangibili, spesso distribuiti in numerosi centri o cantieri di lavoro. Un elemento essenziale per la corretta gestione, fisica e contabile, dei cespiti, è costituito da un sistema di identificazione degli stessi, realizzato mediante l'attribuzione di un numero di matricola risultante da un'etichetta apposta sul cespite, che deve corrispondere alla codifica dell'immobilizzo nel sistema di gestione e nel registro dei beni ammortizzabili.

INVENTARIO FISICO DEI CESPITI

Predisporre periodicamente l'inventario fisico dei cespiti, o dotarli di una etichetta barcode o RFID contenente i dati essenziali dell'immobilizzazione (matricola, data di attivazione, ubicazione, costo storico, fornitore) permette di raffrontare l'inventario fisico con le risultanze contabili, di effettuare un'analisi sulle cause degli eventuali scostamenti e un adeguamento della situazione contabile a quella fisica. E' essenziale che ogni spostamento di ubicazione del cespite sia effettuato con documento di trasporto, cosí come l'alienazione o la distruzione.

lunedì 2 gennaio 2017

ORGANIGRAMMA SI, ORGANIGRAMMA NO

Uno delle questioni piú problematiche nelle medie aziende è l'Organigramma. Un vero e proprio feticcio per gli addetti ai lavori. Quando esiste è spesso secretato. Oppure viene divulgato attraverso canali ufficiosi o in versioni diversificate, in modo che sia sempre possibile affermare che ce n'é sempre uno piú recente. Esso è invocato, quando manca, come il miglior risolutore di problemi. Oppure, in caso di riunioni di direzione che sono in stallo, c'è sempre qualcuno che afferma "Pubblichiamo un organigramma!", come se questa fosse la panacea a tutti i mali dell'organizzazione interna.
La funzione propria dell'organigramma è solo quella di rappresentare graficamente una stuttura organizzativa in un certo momento, indicando di livelli di reponsabilità, le funzioni, e le gerarchie aziendali.
Bisogna dire che non ha nulla a che fare con la leadership, che è la capacità dei responsabili di farsi seguire dai propri colleghi e fissare obiettivi condivisi, senza mezzi coercitivi e senza far valere la posizione gerarchica.
Per esperienza sappiamo che, dove non esiste, pubblicare l'organigramma aziendale è un passo avanti sulla via del chiarimento delle responsabilità. Diciamo che è un inizio.
Ma le aziende lavorano per flussi (informativi, di produzione, di materiali e servizi), e pertanto l'organigramma dice poco o niente sull'organizzazione reale dell'impresa. Anzi. I flussi tagliano trasversalmente le aziende, un imput puó crearsi sotto il dipartimento degli acquisti, e l'output che ne consegue puó terminare sotto il potere della sezione trasporti. E mentre dovremmo considerare la sequenza che viene dal flusso di lavoro/trasformazione nel suo divenire, le persone e gli uffici fanno riferimento alle gerarchie indicate nell'organigramma, con una parcellizzazione delle funzioni che spesso è l'origine dei problemi circa le risorse e la qualità del prodotto.
Il documento migliore sull'organizzazione che potrebbe essere redatto e pubblicato in un'azienda potrebbe risultare da un incrocio tra l'organigramma tradizionale e il diagramma dei flussi operativi.

LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE - JEREMY RIFKIN

LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE – Jeremy Rifkin – Mondadori, 2011 – pagg. 329

Secondo Rifkin il petrolio e gli altri combustibili fossili sono in via di esaurimento e le tecnologie da essi dipendenti stanno diventando obsolete. Dal punto di vista economico il capitalismo ha sempre meno capacità di sconfiggere le crisi economiche e la disoccupazione di massa, oltre ad essere agente di un catastrofico cambiamento climatico che potrebbe mettere a repentaglio la vita dell’uomo sul pianeta.

D’altra parte si sta affermando una nuova rivoluzione industriale, la terza, dato che si stanno affermando, come nelle due precedenti, un nuovo paradigma energetico (energie rinnovabili, distribuite e collaborative) assieme ad un nuovo strumento di comunicazione (l’internet delle cose, IOT). Cosi come la prima rivoluzione industriale avvenne per l’associazione tra vapore e caratteri mobili, la seconda ebbe origine dal motore a scoppio supportato dal telegrafo senza fili, cosi oggi ci troviamo di fronte a nuovi paradigmi energetici e comunicativi che, secondo Rifkin, porteranno in pochi decenni alla coesistenza di un’economia maggiore basata sulla share economy” (economia della condivisione, in cui saranno preponderanti i beni comuni), e un capitalismo in posizione subalterna destinato alla scomparsa.

Il libro è corredato da esperienze ed analisi di progetti innovativi portati a termine, tuttavia, non prende in considerazione che anche la piú “verde” delle energie e la piú distribuita delle tecnologie comunicative possono essere elementi di dominio e merci al servizio del capitale, se non si modificano i rapporti di proprietà e di produzione che li producono. In ogni caso in questo scritto Rifkin offre una disamina dettagliata dei cambiamenti tecnologici e micoecronomici della sharing economy, ed un’ipotesi affascinante sull’evoluzione dei commons (beni comuni) collaborativi.  

REGOLE PRATICHE PER IL CONTROLLO DEL PATRIMONIO AZIENDALE



Nel mio lavoro, a prescidere dalla grandezza dell'azienda, adotto alcune semplici regole tese alla salvaguardia del patrimonio aziendale, in modo da limitare il piú possibile sia le frodi che i rischi relativi alla natura stessa dell'impresa:
  • la contabilità va predisposta in modo che possa essere sempre ben individuata  la responsabilità dei singoli individui che sono custodi delle varie topologie di beni aziendali;
  • stabilire degli accorgimenti che assicurino lo spostamento del bene in modo che il diretto responsabile sia sempre a conoscenza del luogo di destinazione e dell'eventuale data di riconsegna;
  • fare una lista delle persone autorizzate a fare cosa: chi deve autorizzare il pagamento delle fatture di acquisto de di servizi, l'uscita dei materiali dal magazzino, l'emissione di una nota di credito, ecc.;
  • la contabilità organizzata in modo che le registrazioni di ogni operatore siano soggette al controllo in piú possibile automatico di un collega con altra funzione contabile;
  • rivedere periodicamente l'efficienza di controllo incrociati;
  • effettuare periodicamente la rilevazione fisica straordinaria dei beni, siano essi cespiti oppure materiali.
Sei regolette che fanno scemare fortemente il rischio connesso al possesso di beni patrimoniali.